La disillusione fa totalmente parte del cammino spirituale. Potremmo immaginare infatti che nel corso di un cammino spirituale l’unica nostra preoccupazione riguardi cose come la realizzazione, la felicità, l’ottenimento, l’illuminazione. Ahimè, la vita esige allo stesso modo dei sacrifici, degli atti di generosità, una sorta di addestramento prima di ottenere la felicità e il bene. Questo accade proprio perché il concetto di disillusione gioca un ruolo importante significando, in questo contesto, che noi non possiamo soddisfare tutte le le attese dell’ego, né ottenere tutto quello che desideriamo senza né la pratica del dono né una nostra apertura.
In altri termini, questa disillusione sottolinea che noi non possiamo raggiungere la Buddità con i nostri soli mezzi. La progressione spirituale dipende dalla vita quotidiana. Prima di avere la capacità di proclamarci “risvegliati” dobbiamo fare l’esperienza della realtà dell’esistenza in quanto tale. Bisogna dare qualcosa [di noi].
La disillusione è necessaria. Grazie essa cominciamo a comprendere che il risveglio dello spirito dipende dall’abbandono dell’ego. Trascendere le ambizioni dell’ego comporta che esso stesso provi una disillusione. Abbiamo abitualmente la tendenza a pensare: “Mi piacerebbe proprio assistere alla mia stessa illuminazione. Vedo già i miei discepoli che fanno scene di giubilo, mi adorano e mi coprono di fiori. Accadranno ogni sorta di miracoli: la terra tremerà, si scuoterà, cori divini, angeli, ecc…”
Visto che tutto questo non succede mai, ecco che vien fuori la disillusione.
Dal punto di vista dell’ego, la realizzazione dell’illuminazione è la morte ultima, la morte di sé, dell’ego, del “mio” e di “me stesso”, la morte dell’osservatore. Che tristezza a non poter celebrare l’ottenimento del risveglio…
Ci aspettiamo dalla dottrina buddista la soluzione dei nostri problemi e la scoperta, dentro gli insegnamenti, di virtù miracolose capaci di guarirci dalla nostra emotività, dai nostri stati di depressione, o dalla nostra aggressività. Grazie alle parole del maestro o del guru c’aspettiamo la guarigione da tutte queste difficoltà. Con nostra grande sorpresa ci rendiamo conto che non è affatto così. Non c’è alcuna magia in atto: dobbiamo farci carico delle nostre difficoltà. Intrinsecamente, non esiste nemmeno una parola di saggezza al di fuori di un lavoro su di sé. A questo punto, la via ci apparirà come ben poco gratificante, dato che le nostre speranze devono essere abbandonate, piuttosto che confortate.
Fintanto che un processo spirituale comprende la promessa di un sapere, quella di interventi magici o miracolosi, rimaniamo attaccati a una catena d’oro, quella delle belle apparenze, ma ciò che resta malgrado tutto è un attaccamento da cui non riusciamo assolutamente a liberarci. Una catena d’oro ha esattamente la stessa funzione di una catena di ferro! Nella maggior parte dei casi la gente preferisce tirarsi dietro dei legami di questo genere a titolo puramente decorativo, volendo ignorare il loro potere di costrizione. È una forma di autoinganno, come quando si beve un veleno dal fine sapore. La bevanda è piacevole, d’accordo! Ma diventiamo più pratici: noi vogliamo vivere, e non solamente gioire del gusto meraviglioso di questo veleno. La finalità della catena [che ci tiriamo dietro] dovrebbe preoccuparci ben più della materia di cui è fabbricata. Che sia d’oro, o incrostata di pietre preziose, finemente cesellata, lavorata magnificamente o addirittura un capolavoro, queste qualità non le fanno perdere qualcosa del suo carattere di costrizione, ed essa è esattamente come se fosse di ferro.
Un’attitudine migliore sarebbe quella di lasciare la mano libera alla disillusione. Tutte le promesse fatte non sono che pura seduzione. La tradizione buddista considera ogni forma di tentazione come un’opera demoniaca o un atto di Mara, il Maligno. Questi ci sussurra: “Senza che tu debba abbandonare il tuo ego, io ti salverò e ti guarirò, è sufficiente che tu mi obbedisca. Diversamente da quanto pensi, diverrai più forte!“. Questa forma di seduzione è conosciuta con il nome di devaputra, letteralmente “figlie degli Dei”. Le belle figlie di Mara, il Maligno, ci attirano con ogni sorta di promesse in situazioni apparentemente piacevoli. La cosa importante che riguarda la disillusione è quella di comprendere che se anche qualcosa fosse basata su un possibile profitto dell’ego a lungo termine, o fosse diretta al suo arricchimento, saremmo comunque in presenza di un processo suicida piuttosto che di un mezzo per conseguire una forma di trascendenza o di realizzazione del Risveglio.
È per questo che è necessario lasciarci andare alla disillusione, vale a dire abbandonare il concetto di “io” e di “mio”, le “mie” realizzazioni, i “miei” ottenimenti. Se questa volontà di rinuncia ci fa difetto, sarà seguita da uno scoraggiamento costante; parallelamente, volendo abbandonare il nostro ego, questa volontà di rinuncia sarà una prova.
Secondo il Buddha progredire sulla via spirituale è una situazione non piacevole né esaltante. Se guardiamo gli insegnamenti e le biografie dei grandi maestri del passato, dei Siddha e dei Guru, si tratta di un processo costante in cui si mette giù la maschera, di un abbandono continuo, di uno spogliarsi continuo, di mutar pelle continuamente, di un tirar via uno strato dopo l’altro, una facciata dopo l’altra. Impegnarsi sul cammino è come montare su una vettura sprovvista di freni: questo implica l’abbandono, una mutazione di pelle continua, la messa a nudo di ogni fibra del rivestimento dell’ego. Intraprendere un viaggio del genere richiede di prepararsi senza sperare, di provare gioia nella partenza, altrimenti meglio lasciar perdere.
La felicità, il piacere e la gioia devono essere il risultato di un lavoro autentico, di un sacrificio specifico e del mollare la presa del senso che si ha di sé.
Vista da quest’angolo, la disillusione acquista tutta la sua importanza; una volta disillusi, cominciamo a battere in ritirata, a cedere. Diventiamo gli ultimi tra gli ultimi, un granello di sabbia, acquistiamo una semplicità naturale e senza aspettative. Diventati semplici, possiamo costruire qualunque cosa perché finalmente ci siamo ancorati al buon senso terreno. Eccoci qua, con i piedi sulla terra senza più posto per i sogni, le attese o le fantasticherie. Tutte le azioni in corso divengono, se non valide, quantomeno possibili. Esse acquistano un senso, al di là del campo d’azione dell’istinto. A partire fatto di essere diventati un granello di sabbia possiamo cominciare ad apprendere come si prepara un buon thè, a camminare dritti senza perdere l’equilibrio. Tutti i nostri approcci al mondo non hanno più bisogno di preparazione, sono diretti e, di conseguenza, lo diventano anche gli insegnamenti ricevuti. La lettura dei libri, l’ascolto delle istruzioni orali sono una cosa, ma se le abbordiamo in quanto granelli di sabbia queste attività prendono un senso pratico. Esse divengano delle realtà che ci incoraggiano a lavorare su noi stessi, atomi senza impazienza né fantasticherie superflue. Abbiamo accordato fede a tante promesse, ci siamo sentiti attratti da così tanti territori, abbiamo ascoltato così tante descrizioni di multiple rappresentazioni spirituali…. improvvisamente, diventati granelli di sabbia, chi se ne frega più!
Se cominciamo davvero a tenere il conto che noi non siamo altro che infime particelle al centro dell’universo, è allora che questo universo diviene accogliente, qualcosa che c’ispira. Divenuti granelli di polvere il resto dell’universo, tutto lo spazio, i posti disponibili, sono nostri, perché non siamo più d’ostacolo a nulla. Non siamo più ingombranti, non abbiamo alcun desiderio di possedere qualcos’altro che non sia la nostra semplice posizione. Ed ecco perché quest’apertura è formidabile. Ciascuno di noi diventa il maestro del mondo, il conquistatore dell’universo intero. Il semplice fatto d’essere un granello di sabbia ci fa diventare monarchi universali (chakravartin). Non ci sono battaglie da intraprendere. Tutto diventa molto elementare e contemporaneamente impregnato di dignità, senza alcuna pressione perché la nostra ispirazione prende appoggio sulla disillusione e sulla sensazione d’essere liberi dalle ambizioni dell’ego.
(The Tibet Journal – Vol. II n°4 – Inverno 1977)